mercoledì 13 luglio 2016

Federer , l'atteggiamento del GOAT


Federer , la differenza tra campioni e vincenti

Per Arthur Ashe i vincenti sono quelli che riempiono la bacheca di trofei ma i campioni sono quelli che lasciano lo sport in un modo diverso e migliore di come lo hanno trovato. Se è vero questo assunto, dobbiamo riconoscere a Roger Federer di essere stato il più vincente dei vincenti e il più campione dei campioni.
Quanto si è speculato sull’immagine del fuoriclasse dentro e fuori dal campo? Non vogliamo essere buonisti di facciata e quindi non vogliamo sminuire la grandezza di quegli atleti che hanno raggiunti picchi eccelsi nonostante comportamenti tutt’altro che irreprensibili. Anzi, da un punto di vista strettamente letterario, chi scrive di sport non può che essere grato alle figure un po’ stereotipate di “campioni maledetti” o di esemplari rappresentanti della fortunata formula “genio e sregolatezza”. Sono stati scritti libri per raccontare l’ira funesta che esplodeva in McEnroe per una decisione arbitrale non condivisa che lo portava nel migliore dei casi ad urlare con sdegno “You ain’t be serious!”, “Non puoi dire sul serio!”. Le riviste di gossip hanno celebrato le conquiste fuori dal campo di Safin decantando il suo harem personale. E Nastase ha istituzionalizzato le manovre di disturbo del rivale miscelando sapientemente improperi, perdite di tempo, sceneggiate, moine da clown e finte polemiche con i giudici di linea. Insomma, senza le sfuriate di McEnroe, l’epopea di Safin e delle safinette e l’istrionismo di Nastase, ci saremmo divertiti di meno, ma viene da chiedersi quanti titoli in più avrebbero conquistato i nostri eroi con un comportamento più equilibrato. Non basta essere “bravi ragazzi” per aspirare al GOAT, ma l’atteggiamento è un parametro che non possiamo trascurare ai fini della nostra analisi per due ragioni.
Roger Federer , la pagina che spiega perchè è il Goat
Innanzi tutto, allenarsi regolarmente, limare il proprio ego quando sconfina nella presunzione, evitare di litigare con arbitri, giudici di linea, spettatori, supervisor, avversari, con il proprio allenatore e con i coach degli avversari, aiuta a vincere di più. E allunga la carriera. Inoltre, chi si candida a essere il migliore di sempre deve, a nostro avviso,  assecondare l’assioma di Arthur Ashe e contribuire alla crescita, alla diffusione e all’interesse per il gioco. Federer è considerato pressoché unanimemente il miglior testimonial possibile del tennis: elegante e straordinariamente spettacolare in campo, equilibrato e posato fuori. Non vogliamo cavalcare l’onda mediatica che ne plaude le iniziative benefiche e umanitarie o i risultati raggiunti dalla sua fondazione con iperboli o superlativi. Appare in linea con la saldezza caratteriale il destinare energie e denaro per finalità filantropiche: non si tratta di atti eroici, ma dell’umanissima soddisfazione di poter sfruttare la propria immagine per aiutare gli altri avendone la possibilità. E’ innegabile, però, che Federer abbia elevato l’immagine del tennis, rinvigorendo l’eco mediatica relativa a questo strano sport in cui si corre con un aggeggio in mano inseguendo una pallina, contribuendo ad associare il tennis ad un universo di valori positivi. Non si è limitato a donare soldi, ma ha viaggiato per conoscere da vicino le realtà che supportava; non si è mai vergognato dei ricavi commerciali, pubblicitari e delle decine di milioni di dollari vinti nei tornei sottolineando di considerarsi fortunato e grato ai giocatori delle generazioni precedenti che avevano messo le basi per far sì che ciò fosse possibile.
Uno dei campioni più amati di sempre – se non il più amato di sempre – e uno dei meno odiati di sempre, probabilmente il meno odiato di sempre: non c’è un solo rivale che abbia speso per lui parole al veleno, non c’è un solo addetto al campo, un medico, un organizzatore o un raccattapalle che non ne abbia apprezzato la cordialità e la semplicità di salutare sempre. A telecamere spente, soprattutto.
Andy Roddick glielo disse una volta: “Mi piacerebbe odiarti a morte, ma sei troppo una brava persona”. Curzio Maltese ha spiegato in poche righe le ragioni del suo consenso plebiscitario a tutte le latitudini: il più poetico, il più grande d'ogni tempo e d'ogni sport, «più di Michael Jordan, Muhammad Ali o Maradona» (parola di David Foster Wallace), il più bello e bravo e buono ed elegante e onesto. Quello che mai uno scatto d'ira, mai una polemica o un capriccio, mai un versaccio o una sbuffo da bisonte alla battuta. Quello che è ambasciatore dell'Unicef e ha sempre un pensiero e un'opera buona per terremotati, vittime di tsunami e bambini abbandonati. Quello adorato dalle donne, ma rigorosamente monogamo e padre di famiglia. Quello tanto cattolico e troppo ecumenico, che piace alle nonne perché è un vero signore e alle teenagers perché è tanto fico, al Papa e a Obama, a destra e a sinistra, a Nord e a Sud, tanto viene dalla Svizzera, che è neutrale”
È, però, giusto ricordare che il Federer regale, rispettoso del proprio stile e degli avversari, è il risultato di un percorso. Da giovane Roger era annotato dagli osservatori come uno scapigliato irascibile, incapace di tollerare i propri errori e la sconfitta. E all’arrivo sul circuito professionistico, non sono mancate racchette sfasciate (da bambino ne ha distrutta più di una a casa della nonna e durante gli stage giovanili della federazione elvetica), scatti di rabbia, gesti di nervosismo. Proprio dopo uno di questi, Federer cominciò a chiedersi se fosse quella l’immagine che voleva dare di sé e provò imbarazzo, se non vergogna. Capì che reazioni così scomposte non lo aiutavano: la concentrazione se ne andava e con essa i match. E ha iniziato una fase zen:  niente bizze, niente polemiche, ma anche pochi risultati. Roger si preoccupava più di non dar luogo a sceneggiate che a mantenere la grinta necessaria per portare a casa il match. Il Federer che tutti conosciamo è soltanto quello della versione caratteriale 3.0 : un campione che non si vergogna di mostrare le proprie emozioni (lacrime hanno seguito le vittorie più luminose e le sconfitte più cocenti) ma non inveisce a vuoto. Rimane aggrappato al match anche quando il punteggio non sorride, trasforma il nervosismo in energia positiva. Ed è forse questo l’aspetto più didattico di Federer: non si migliorano soltanto dritti e rovesci ma anche il proprio atteggiamento durante la partita. Qualcuno ha detto che Federer si è snaturato divenendo calcolatore da ribelle, addirittura irritante nel suo essere sempre celebrato e ammirato.
“Ah, quanto è stato lungo, mellifluo e – in buona sostanza – palloso il suo quinquennio (o giù di lì) dittatoriale. Neanche un piano sequenza di mezz'ora di Abbas Kiarostami avrebbe devastato così in profondità gli zebedei di tutti coloro che non si chiamano Mirka e non appartengono alla tribù fondamentalista dei Federasti Piangenti. Dalla fine del 2003 alla metà del 2008, fatto salvo Nadal e un Safin occasionale, giornali e tivù erano un coro unanime di peana politicamente corretti: Quanto è bello Federer, quanto è bravo, quanto è garbato, quanto è imbattibile. "Il più grande di sempre", bla bla bla. L'opposizione era negata, gli avversari non esistevano”. Musica e parole sempre di Andrea Scanzi, a cui verrebbe da chiedere da chi fosse negata l’opposizione dato che ha – con pieno diritto – potuto scrivere e riscrivere di Federer per anni. L’ipotesi di un complotto planetario pro Federer appare fragile. Chi lo avrebbe orchestrato? Poteri occulti? Il Gruppo Bildeberg? Foschi assessori regionali del Molise? I cospiratori dei cerchi nei campi di grano? O i fautori delle scie chimiche?  Quanto meno, rimane il dubbio che molti abbiano simpatizzato per Roger semplicemente perché piaceva loro vederlo giocare.
Ha, invece, ragione Scanzi quando sostiene che spesso la rabbia sia una componente che rende leggendari i campioni e la citazione su Mohammed Ali e Ayrton Senna come simboli di fuoriclasse in grado di ispirare libri, film e documentari è pertinente. La rabbia è un sentimento rivoluzionario che parte da una brama interiore per emozionare all’esterno, genera un riscatto personale contro un’ingiustizia che induci gli altri a identificarsi e ad emulare il coraggio dei beniamini. Quando uno sportivo riesce  a riscrivere le pagine della Storia con la S maiuscola, accelera il cammino verso il progresso. Dalla protesta di Mohammed Alì al pugno alzato al cielo di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico, dal gol di Sindelaar come schiaffo ai gerarchi nazisti all’amicizia tra Jessie Owens e Lutz Long: solo per ricordare alcune istantanee per cui il mondo deve essere grato allo sport.
Tuttavia, la rabbia per sprigionare la propria forza senza implodere ha bisogno di un’unica condizione: deve essere autentica. Non si può rimanere indifferenti verso chi ha rischiato in prima battuta per protestare contro il razzismo o verso chi per anni ha subito per anni vessazioni familiari trovando nello sport la propria rivincita con la vita. Ma se uno come Federer, ha avuto un’adolescenza serena in cui sognava di diventare un tennista professionista e si è ritrovato a vincere più di tutti, che motivo ha di lasciarsi travolgere dall’ira, di prendersela con un destino che gli ha regalato tutto ciò che desiderava?
Roger Federer non si è venduto sull’altare dell’invincibilità rinunciando ai riverberi più folli della sua anima, è semplicemente maturato per raggiungere gli obiettivi a cui aspirava. Agli uomini di successo capita spesso.


Federer e l'eterna domanda su chi sia il migliore di sempre


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